Nel calcio contemporaneo, le lesioni muscolari non sono più solo un’imprevista battuta d’arresto, ma sembrano diventate parte della routine. Ci si muove con disinvoltura tra bollettini medici e previsioni di rientro, come se fossero eventi inevitabili e normali. Eppure dietro ogni stop c’è un percorso delicato che, se spesso viene raccontato nelle sue tappe fisiche, raramente viene considerato per le sue profonde implicazioni umane.
Gli infortuni muscolari sono in netto aumento nella Serie A: secondo i dati delle società mediche e dei centri specializzati, nell’ultima stagione i casi sono cresciuti del 15% rispetto a tre anni fa. L’ultimo esempio lampante arriva dal Napoli, il cui centrocampista Kevin De Bruyne dovrà fare i conti con un intervento chirurgico per una lesione di alto grado al bicipite femorale, con una previsione di recupero di almeno tre mesi.
Riccardo Torquati, presidente della Federazione Italiana Fisioterapisti dello Sport, ha – in quest’ottica – lanciato l’allarme:
“Il ritmo di due partite a settimana e la partecipazione continua a competizioni stressanti logorano l’organismo degli atleti, peggiorando la qualità dei tessuti e aumentando l’incidenza di infortuni gravi. I fattori genetici giocano un ruolo, ma neppure i giovani sono immuni.”
Oltretutto, le nuove frontiere della medicina sportiva equiparano – ormai – certe lesioni muscolari alle fratture: operazioni chirurgiche, suture con ancore e trattamenti avanzati come il plasma ricco di piastrine (PRP) accelerano il ritorno in campo, ma non cancellano la fatica del percorso riabilitativo.
Nella narrazione mediatica e social, il calciatore infortunato viene trattato quasi alla stregua di un robot da “riparare” e da rimandare subito all’opera. Il linguaggio corrente parla delle settimane di recupero come se fosse un gioco di numeri per addetti ai lavori e tifosi, senza cogliere che ogni settimana in più o in meno ha conseguenze non solo per i fantallenatori o per chi segue le partite scommettendo con gli amici, ma soprattutto sugli atleti e sulla loro vita psicologica e sociale.
Il pressing per rientrare prima del previsto costringe, spesso inconsapevolmente, il giocatore a forzare la mano, con il rischio di peggiorare, cronicizzare l’infortunio o vivere nell’ansia della ricaduta. In questa visione aziendalista del calcio, l’atleta è percepito sempre meno come persona e sempre più come ingranaggio, soggetto a tempistiche e aspettative che quasi prescindono dalla sua natura umana.
La triste verità, spesso ignorata, è che dietro ogni infortunio si nasconde una crisi personale: molti calciatori vivono ansia, paura di non tornare al massimo, frustrazione, senso di isolamento o depressione. La paura di essere sostituiti, amplificata dalla feroce competitività e dalla facilità con cui una squadra può “coprire il ruolo”, acuisce il senso di precarietà.
La pressione mediatica, la disamina minuziosa di sponsor e tifosi su tempi di recupero e performance, il rischio di perdere “lo status” all’interno del gruppo, si traducono in uno stress emotivo che spesso aumenta la suscettibilità agli infortuni e rallenta la guarigione.
Ultimo, ma non meno importante, lo stigma culturale — la retorica del privilegiato che, tirando calci a un pallone, guadagna in un mese più di quanto molti guadagnano in un anno e non ha, quindi, diritto di lamentarsi — porta molti a nascondere fragilità e paure, ostacolando così un vero recupero sia fisico che mentale.
Il dibattito sulle settimane di recupero — l’idea che se un giocatore rientra dopo troppo tempo rischia di essere dimenticato — è una prova della deriva verso la normalizzazione e la gamification degli infortuni. Non si considera l’impatto reale su chi vive questa esperienza, spesso liquidando il vissuto del calciatore con l’idea che “ha già tutto, guadagna bene, può sopportare”.
Questa narrazione deresponsabilizza e disumanizza quando, in realtà, una settimana in più di riabilitazione può cambiare non solo le prospettive professionali, ma anche la serenità personale, alimentando ansia, isolamento e insicurezza in chi già convive con la pressione di dover tornare “perfetto” in tempi record.
Affrontare il tema degli infortuni muscolari nel calcio richiede, più che mai, non solo una riflessione sulla cultura sportiva, ma anche soluzioni operative e lungimiranti per gestire l’emergenza. Proprio per questo, oggi club e leghe sono chiamati ad adottare strategie sistemiche che tutelino davvero la salute degli atleti.
Innanzitutto, la gestione intelligente del calendario – ridurre il sovraccarico di partite ravvicinate e prevedere riposi obbligatori – appare una delle azioni più urgenti al fine di abbassare concretamente il rischio di lesioni. Parimenti importante è il monitoraggio medico tecnologico con una rilevazione continua di dati relativi ad affaticamento, stress muscolare e parametri di salute affinché gli staff possano intervenire tempestivamente, possibilmente ancora prima che il danno si manifesti.
Contestualmente, i club più evoluti stanno potenziando l’approccio multidisciplinare, inserendo figure come fisioterapisti, nutrizionisti e psicologi dello sport: in questo modo, la prevenzione diventa realmente sinergica, unendo corpo e mente e promuovendo il benessere globale del giocatore. Altrettanto importante è la formazione degli atleti, che non può più limitarsi agli aspetti tecnici: occorre educare sul riconoscimento precoce dei segnali di sovraccarico, sulle buone pratiche di recupero, sull’alimentazione e sulla gestione dello stress.
Sul piano delle metodiche, inoltre, le ultime tendenze vedono un ampliamento dell’utilizzo di esercizi neuromotori e di forza, sessioni di idrochinesiterapia e terapie innovative come il PRP e le cellule staminali, impiegate ora anche in ottica preventiva. Infine, una revisione delle regole di sostituzione e della rotazione degli atleti — con la possibilità di aumentare il numero e la frequenza dei cambi — garantirebbe una gestione più equilibrata dei carichi agonistici e tutelerebbe la salute complessiva del gruppo squadra.
Così facendo il calcio potrebbe davvero guardare al futuro con meno fatalismo e più responsabilità, promuovendo una cultura della prevenzione che metta finalmente al centro la persona e non solo la prestazione.
Alcuni club stanno già inserendo il supporto psicologico nei percorsi di recupero, promuovendo un approccio che valorizza la resilienza, l’accettazione temporanea della fragilità e la re-integrazione sociale; ma un cambiamento culturale è necessario: bisogna tornare a vedere l’atleta nella sua complessità, riconoscendo anche il valore dei momenti difficili.
Raccontare con più onestà la fatica psicologica e sociale dietro a ogni infortunio può ispirare un nuovo modo di vivere il calcio: meno ossessionato dalla prestazione, più attento al benessere complessivo e all’umanità dei protagonisti.
Infortuni e recuperi sono ormai parte dello storytelling calcistico, ma dietro i numeri delle settimane di stop, ogni calciatore vive una sfida che riguarda corpo, mente e ruolo sociale. Guardare più a fondo, con pensiero critico e umano, ci permette di amare il calcio senza perdere di vista le persone che, tra gioia e dolore, lo rendono grande.